Nato (1791) e morto (1863) a Roma, Giuseppe Gioachino Belli è uno dei poeti romani più rappresentativo della vox populi del XIX secolo. Nato da famiglia vicino alla curia romana, si trovò già da bimbo a dover scappare dalla Città eterna con l’avvento della Prima Repubblica che vedeva, ispirata al modello francese, vedeva di malocchio lo stato Pontificio. La famiglia per aver salva la vita, dovettero scappare nel Regno delle Due Sicilie, dove però si trovarono costretti a vivere una vita di stenti. Quando Pio VII andò al potere, i Belli tornarono a Roma. In breve tempo il nostro poeta perse il padre, prima, e la madre, poi. Ciò lo vide costretto, a soli 16 anni a mettersi a lavorare in mansioni modeste.
In età adulta si dimostrò essere un reazionario: aveva odiato di riflesso la Prima Repubblica e osteggiato la Seconda. Belli aveva idee chiarissime e tutt’altro retrograde. Al centro dei suoi sonetti mise il popolo romano come protagonista indiscusso
“Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, in gran parte concettosa e arguta, e le ritraggo col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua non italiana e neppur romana, ma romanesca.”
A 19 anni diede vita all’Accademia Tiberina assieme a un gruppo di amici; anche se la passione letteraria doveva fare ogni giorno i conti con le ristrettezza economiche, che costrinsero la sua famiglia e poi lo stesso poeta a traslochi continui. A 25 anni, vi fu il matrimonio organizzato, con la benestante Maria Corti, vedova di 13 anni più grande di lui, che gli permise un minimo di agiatezza e un buon lavoro. Divenne vedovo nel 1837, ricominciando a cambiare spesso abitazione. L’Accademia Tiberina, di cui era diventato presidente, inizia a stargli stretta e decide, quindi, di uscirne e di viaggiare per Venezia, Milano, Firenze, dove incontra scrittori e letterati ed entra in contatto con i circoli illuministi.
Nel 1852 ottenne l’incarico di censore della morale politica: mentre si premurava di censurare i sonetti in romanesco, per non intralciare la carriera del figlio nell’amministrazione pontificia, condannò Rossini, Verdi e il teatro di Shakespeare.
Morì per un colpo apoplettico nel 1863. Sempre più bacchettone aveva affidato i propri manoscritti a un amico, monsignor Tizzani, con la preghiera di bruciarli. Per fortuna l’amico si guardò bene di eseguire tale volontà e, dopo la morte del Belli, li consegni al figlio il quale li fece arrivare fino a noi.